Ho fatto una promessa, anzi due.
Che avrei rimesso mano a questo blog… e che non avrei dato mai più nulla per scontato. Come cosa? Avere occhi che si chiudono, pupille che si muovono… avere labbra che sorridono, mani che si sollevano, gambe che camminano.
Perché per un certo tempo del mio tempo nessuna di questa cose è stata più così scontata.
Ma procediamo con ordine. E’ la mattina dell’11 novembre del 2022 quando faccio per alzarmi dal letto per accompagnare a scuola mio figlio. MI accingo a sollevarmi, e con sgomento sento le gambe cedere. Al contempo avverto una sensazione di intorpidimento alle mani – in particolare la sinistra – e inizio a vedere doppio dagli occhi.
Comprendo immediatamente, nonostante la mia scarsa competenza in medicina, che si tratta di un problema neurologico. Con addosso una preoccupazione folle ma che cerco di mascherare e me stessa e al mondo, riesco comunque a portare mio figlio a scuola. Poi chiamo i miei genitori, spiego loro “C’è un problema… dobbiamo andare al pronto soccorso” e in macchina ci dirigiamo al Besta, riconosciuto come uno dei migliori ospedali neurologici in tutta Europa. Qui giunti, scopriamo che questo ospedale non ha un pronto soccorso. Ci dirottano allora sul pronto soccorso di un altro istituto non lontano. Qui entro in codice giallo e passo 10 ore interminabili tra esami, visite e lunghe attese, senza che i medici riescano a formulare una diagnosi precisa. Alle 20 mi comunicano che mi tratterranno per una notte in pronto soccorso, così da tenermi in osservazione. Senza entrare nei dettagli, posso dirvi che questa tra preoccupazione e disagi è stata “la mia notte più lunga”.
La mattina mi alzo, riesco ancora a camminare nonostante la galoppante sensazione di intorpidimento muscolare. Ma la vista è molto peggiorata: ora vedo doppio anche soggetti di fronte a me, ad una distanza più ravvicinata di prima. Vado in bagno per lavarmi i denti, anche quest’operazione di per sé banale scopro ora che mi da’ non pochi problemi. Il mio braccio esegue movimenti spastici, incontrollabili. E’ come se il mio corpo improvvisamente avesse deciso di disertare anche le operazioni più semplici, di uscire totalmente dal mio controllo.
Attendo ancora qualche ora, prima di essere visitata dalla dottoressa di turno. Per scelta non farò nomi, ma posso dire che lei sarà, nella gran sventura che mi è capitata, una delle mie fortune più grandi. Mi visita, le spiego che rispetto al giorno prima la sintomatologia è peggiorata. Le chiedo fuori dai denti se non si tratti di sclerosi multipla. So di persone con sintomi in parte simili ai miei aver ricevuto questa diagnosi e le esprimo questa perplessità. Lei mi spiega che sebbene la mia preoccupazione abbia un certo livello di fondamento, questo non è probabile, perché il mio problema alla vista non sembra compatibile con i disturbi che possono riscontrarsi nei casi di sclerosi multipla. Affranta, impaurita – anzi, terrorizzata (dal punto di vista psicologico, in quel momento l’assenza di una diagnosi è quasi peggio del fare i conti con una diagnosi preoccupante ma almeno certa) firmo la mia lettera di dimissioni dal pronto soccorso e torno a casa, decisa a farmi visitare da un neurologo d’urgenza e a fare tutti gli esami possibili immaginabili all’inizio della settimana successiva. La scelta di lasciare il PS può sembrare sciocca o avventata, ma nell’immediato, mancando la prospettiva di un vero ricovero e prospettandosi un’altra giornata di snervanti attese, preferisco assumermi la responsabilità di tornare a casa e gestire la cosa in un altro modo.
Ma evidentemente le cose erano destinate ad andare diversamente. Arriva la domenica mattina, il mio telefono squilla. E’ la dottoressa del pronto soccorso. “Torna, se vieni ti faccio subito ricoverare in reparto”. Mi spiega che molto probabilmente si tratta di una rara malattia autoimmune e che dobbiamo fare un prelievo spinale per avere certezza della diagnosi.
Prendo una borsa, ci butto dentro due o tre cose alla rinfusa e mi faccio accompagnare in pronto soccorso. Qui mi accoglie la dottoressa che mi fa accompagnare in reparto. MI sottopone dopo alcune ore ad un prelievo di midollo spinale. Quando gli esiti arrivano, confermano la sua tesi: si tratta della sindrome di Guillain Barrè , nella variante cranica conosciuta come Miller Fisher. Cosa comporta questa sindrome? Una risposta immunitaria anomala, tale per cui i miei anticorpi iniziano ad attaccare il sistema nervoso periferico come se si trattasse di un virus o altro agente patogeno esterno da debellare.
Sul perché insorga questa sindrome, ancora non vi è una risposta univoca e certa. Sembra che nella maggior parte dei casi sia dovuta ad un virus che il nostro organismo cerca di debellare producendo gli anticorpi del caso. Una volta debellato il virus, questi anticorpi anziché fermarsi continuano ad agire, attaccando le proteine della guaina mielinica che avvolge i nervi, proprio come se fosse un virus da eliminare. Un medico ve lo spiegherebbe molto meglio, ma spero che il concetto sia arrivato.
Ma torniamo a noi, anzi, a me. Finalmente una diagnosi, penso io. Non bella… piuttosto seria… ma pur sempre una diagnosi. E inizio tempestivamente una terapia di immunoglobuline via endovenosa per 5 giorni consecutivi.
Il giorno dopo, con mio enorme sgomento, non riesco più a reggermi in piedi. Anche solo sollevare oggetti (tipo il cellulare) con le mani diventa sempre più difficile, tanto poca è la forza che ho nelle braccia.
Mi imboccano, mi lavano, mi cambiano… il tutto dal letto… perché non posso alzarmi, camminare, non posso andare in bagno in autonomia.
Peraltro, essendo disfagica, in questa fase posso mangiare solo cibi molto molli che non necessitano di grande masticazione, come pasta stracotta, semolino e omogeneizzati. Sì, omogeneizzati, tipo i Mellin, proprio quelli per i bambini.
Dopo qualche giorno, dal letto, passo alla sedia a rotelle. In quel momento mi sembra un’incredibile conquista.
Continuo con la terapia. Pochi giorni dopo l’inizio del ricovero riprendo a stare in piedi sulle mie gambe, a muovere piccoli, incerti passi col deambulatore, anche se l’equilibrio è deficitario.
Un poco alla volta miglioro nei movimenti e anche nell’umore: la vista è ancora doppia ma tornare a camminare mi da un enorme sollievo! Non lo davo più per scontato.
Tre giorni dopo il termine della terapia… ecco però un nuovo peggioramento. Un poco alla volta la faccia si paralizza, a partire dalla bocca: non mi è più possibile sorridere, sollevare le labbra, inarcare le sopracciglia, arricciare il naso… e compiere tanti altri movimenti che per noi sono squisitamente scontati.
I dottori, sempre molto presenti solerti e attenti nei miei confronti, mi dicono che è la malattia che fa il suo corso, che indipendentemente dalla somministrazione di immunoglobuline quel peggioramento era evidentemente destinato a verificarsi lo stesso. Decidono pertanto di procedere con una nuova somministrazione di medicinale per 3 giorni, al termine dei quali continuo con una cura cortisonica via bocca.
Mi stabilizzo. La paresi facciale è di una certa severità ma per fortuna non sono stati toccati i muscoli respiratori e della deglutizione. Ci sono persone con la sindrome di Guillan Barrè e di MIller Fisher che finiscono dritte in terapia intensiva. Ho ringraziato il cielo per essermela miracolosamente risparmiata.
Il 6 dicembre vengo poi trasferita in riabilitazione. Le labbra un poco alla volta iniziano a sbloccarsi, anche grazie agli interventi di logopedia e agli elettrodi che mi vengono applicati sul volto una volta al giorno, al fine di stimolare i nervi a ritornare in attività.
In riabilitazione riprendo a mangiare normalmente, senza i fastidiosissimi residui di cibo che, a causa della paresi, mi restavano ai lati della bocca. E anche la dieta migliora. Torno a mangiare la pasta cotta al punto giusto, abbandono semolino e omogeneizzato per qualcosa di più soddisfacente (certo… in maniera compatibile con le squisitezze somministrate in un ospedale!).
Dopo circa 3 settimane di riabilitazione, sebbene non completamente in forma, vengo dimessa. E’ il 23 dicembre, mancano due giorni a Natale. I miei occhi vedono ancora doppio, devo muovermi occludendo con un bendaggio un occhio alla volta e il mio equilibrio è ancora un po’ precario. Ma riabbracciare mio figlio dopo 40 giorni di degenza è la regina di tutte le terapie… almeno per l’umore.
Un poco alla volta i progressi continuano fino ad arrivare ad oggi, che posso dirmi completamente ristabilita. Come un film… terribile, ma con un lieto fine.
E’ stata una prova enormemente dura, sofferta, dolorosa. Ma le cure giuste, la disponibilità dei medici e dei fisioterapisti e il calore della mia famiglia e delle tante persone che mi hanno dimostrato tutta la loro vicinanza e il loro affetto hanno reso tutto più sopportabile.
Della sindrome di Guillain Barrè e della sua variante cranica, la sindrome di Miller Fisher, non si parla molto. Io personalmente non le conoscevo, prima di finirci dentro. Sono malattie difficili, traumatiche, ma dalle quali ci si può riprendere del tutto. Il decorso è strettamente personale e fare paragoni è inappropriato e pericoloso. La ripresa avviene con tempi propri, che possono variare sensibilmente da persona a persona. Durante il mio ricovero ho avuto modo di entrare in contatto con una persona che pochi mesi prima era stata colpita dalla medesima sindrome e i suoi sintomi, così come i tempi di ripresa, sono stati in parte diversi dai miei. Ad esempio, la sua diplopia si era risolta in pochi giorni, per me ci sono voluti un paio di mesi. E per altre persone potrebbe essere necessario un tempo di recupero ancora diverso. Bisogna essere consapevoli che la variabile tempo non è preventivamente quantificabile, se non con una certa approssimazione. Quando ci si è dentro la paura di non tornare più gli stessi è tanta, concediamocela. Ma cerchiamo sempre di fidarci dei medici e della scienza. E diamoci tempo. Ripeto, guarire si può, ritornare alla vita si può, con ancora più forza di prima. Il messaggio che vorrei dare a chi ne fosse colpito e stesse sopportando questo peso proprio ora mentre legge queste parole è di continuare a farsi forza, anche nei momenti più duri… anche quando la speranza viene meno… Circondatevi dell’affetto delle persone care, chiedete aiuto… E se vorrete parlarne con qualcuno che ci è passato e ha tutte le carte in regola per capirvi nel profondo, io ci sono.
Questa esperienza mi ha cambiato nel profondo. Mutuando la frase di un famoso film, “I diari della motocicletta”, posso dire che “Io, non sono più io, perlomeno non si tratta dello stesso io interiore”. Ho scritto tutto questo perchè nonostante tutto non voglio dimenticare. Non voglio dimenticare il bene che ho ricevuto in questi mesi, l’amore, il sostegno, la solidarietà… non voglio dimenticare la forza e la pazienza che da malata ho saputo trovare dentro di me, la determinazione, l’autocontrollo… non voglio dimenticare come i problemi piccoli sfumino davanti alle faccende serie della vita… e non voglio dimenticare cosa si prova a sentirsi persone migliori, anche nei propri giorni peggiori.